Molte testate italiane, con “sfumature” diverse, hanno riportato il contenuto di un recente articolo pubblicato su Foreign Affairs nel quale due analisti, Samuel Charap e Sergey Radchenko rivelano alcuni interessanti dettagli sull’accordo sfiorato all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, i quali si prestano, secondo me, anche ad ulteriori possibili letture in grado di arricchire il contesto che ne determinò il fallimento. Importante in tal senso è sgomberare il campo da manipolazioni parziali e tendenziose come quella che ne fa, come sua abitudine, il @fattoquotidiano. Il giornale di @marcotravaglio punta infatti il dito direttamente contro il Primo Ministro inglese Boris Johnson, accusato di essere uno di coloro che avevano maggiormente premuto su Zelensky per impedire l’accordo nel marzo del 2022, a conferma della bontà delle tesi del “pacifintismo” e delle colpe dell’Occidente guerrafondaio. Premetto, a scanso di equivoci, che ritengo certamente plausibile che Johnson abbia ad un certo punto sconsigliato l’Ucraina di concludere l’accordo, ma questo non tanto per soddisfare un mero desiderio di guerra, quanto piuttosto per evitare che Kyiv ripetesse gli errori già commessi (e pagati) nei 30 anni precedenti. Per comprendere gli elementi che potevano condizionare i colloqui, va innanzitutto considerato il contesto nel quale questi si sono svolti, con i carri armati alle porte di Kyiv, intere aree intorno alla capitale occupate, l’inizio dell’assedio di Mariupol e massicci bombardamenti sulla popolazione civile, i quali avrebbero dovuto porre la Russia in una posizione di forza, non proprio la premessa di un accordo in buona fede. Questo dettaglio mi ha spinto a rilevare alcune similitudini con quanto avvenuto ad esempio nei colloqui di Minsk nel 2014-2015, ma anche la straordinaria capacità di Putin di trascinare questo genere di trattative su un terreno nel quale lui può assicurarsi una vittoria comunque vada. A conferma di questo vanno secondo me lette correttamente anche le straordinarie ed inattese concessioni che la Russia era parsa disposta a fare, persino sulla Crimea, il cui status si sarebbe potuto in qualche modo ridiscutere nei successivi 15 anni. Chi conosce la vera e propria ossessione dello zar per la penisola, donata secondo lui illegittimamente da Krusciov all’Ucraina nel ‘54, ed il ruolo strategico del porto di Sebastopoli, sa bene che questo elemento aggiunge, se vogliamo, un tocco di fantascienza alle trattative. L’obiettivo di questo doppio registro (pressione militare da un lato e offerte “imperdibili” dall’altro) era chiaramente quello di rendere più appetibile un’intesa, che la Russia dimostrava così di avere effettivamente grande interesse a chiudere positivamente. Ma cosa c’era nell’accordo di così importante per Mosca al punto di spingerla a mettere sul piatto i “gioielli di famiglia”? A giudicare dai dettagli forniti da Foreign Affairs, gli scopi della delegazione russa erano essenzialmente due: la sostanziale smilitarizzazione dell’Ucraina (nell’accordo era prevista una riduzione dell’esercito a sole 85.000 unità e un contenimento dei mezzi a 340 carri armati oltre a soli missili con gittata di appena 40 km) e la rinuncia di Kyiv ai progetti di adesione alla NATO. Per superare l’ovvia resistenza dell’Ucraina rispetto ad un’ipotesi che di fatto non prevedeva alcuna tutela per la sua sicurezza (niente armi, né lo “scudo” dell’Alleanza Atlantica), nella bozza di intesa erano previsti singoli accordi attraverso i quali alcuni paesi si sarebbero impegnati ad intervenire in caso di violazione dell’integrità territoriale ucraina. La sensazione è che questa formula sia stata non a caso prevista dalla Russia, avendo come punti di caduta due soli possibili scenari. Il primo, in caso di sottoscrizione dell’accordo, consistente nella quasi certezza che i paesi garanti, anche davanti ad una palese violazione dell’integrità territoriale, non sarebbero intervenuti, come già successo per gli accordi precedenti. Il secondo, quello che si è poi effettivamente materializzato, secondo cui l’obbligatorietà di un intervento militare in difesa di Kyiv avrebbe di fatto scoraggiato i possibili sottoscrittori, per nulla affascinati dal rischio di uno scontro diretto con Mosca senza la copertura della NATO, avvalorando però così la narrazione di un Occidente responsabile del sabotaggio dell’accordo. Scenari, appunto, entrambi favorevoli alla Russia. Altro elemento che ha avuto certamente il suo peso è anche la storia non proprio felice di tutti gli accordi precedenti, anche quelli basati su termini apparentemente positivi per Kyiv, ma di fatto mai rispettati dalla Russia. E’ così che con il Memorandum di Budapest del 1994 Kyiv accettò la dismissione del proprio poderoso arsenale nucleare (1.900 testate, il terzo al mondo) in cambio di un rispetto dell’integrità territoriale che Mosca vent’anni dopo violò. Gli eventi del 2014 resero cartastraccia anche il “Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato tra la Federazione Russa e l’Ucraina” del 1997. Dopo l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbass, si tentò prima con i trattati di Minsk (2014) e poi con quelli di Minsk II (2015) di trovare una soluzione pacifica. Anche in quel caso la Russia si fece garante della promessa di obiettivi che parevano impensabili come il ripristino del controllo ucraino sui confini e lo svolgimento di libere consultazioni, in cambio di una riforma dell’autonomia delle regioni di Luhansk e Donetsk. Risultato: l’Ucraina avviò le riforme, ma gli occupanti, sostenuti dalla Russia non vollero mai adempiere alla loro parte degli accordi. La scoperta delle stragi efferate di Bucha e Yrpin fecero poi deragliare definitivamente ogni possibile intesa, avendo reso evidente che le intenzioni russe andavano ben oltre la volontà di riportare l’ex stato sovietico in una sorta di propria sfera di influenza. In conclusione. Sostenere, anche in base al resoconto della rivista statunitense, che si fosse vicini ad un accordo è quindi forse tecnicamente vero, ma che si trattasse di un accordo di pace non è altrettanto scontato. L’obiettivo russo era semmai quello disarmare Kyiv e tenerla fuori dalla NATO rendendola facile preda di una nuova potenziale futura aggressione, che sarebbe potuto scattare in qualunque momento, a seguito della cancellazione degli accordi con un pretesto legale (come fatto con il Memorandum di Budapest) o magari con un attacco sotto falsa bandiera (come quasi certamente avvenne per l’accordo di Sochi con la Cecenia). Johnson non fu dunque un incosciente guerrafondaio, come alla propaganda fa comodo dipingerlo ora, ma un amico dell’Ucraina, uno che, da britannico, dei russi non si è mai fidato. Uno che ha semplicemente messo in guardia un alleato, ricordandogli quello che chiunque di noi ricorderebbe ad una persona cara: che chi ti ha già tradito quattro volte, non si farà alcuno scrupolo a farlo anche la quinta. Questo post è pubblicato anche su @in_oltre
@marsetac Grazie Marco per questo chiarimento molto interessante.
@marsetac Anche molti analisti nostri concittadini si sono gettati in analisi geopolitiche dopo aver letto il falso quotidiano
@marsetac Grazie sempre Marco molto interessante il tuo scritto, non sono ferrata in politichese ma si capisce molto bene.
@marsetac Sei veramente una miniera di informazioni. Dopo aver ascoltato Capanna(!) a L'Ariachetira parlare del mondo degli unicorni con la pace perenne, ho ricacciato in gola la maggior parte degli improperi, ho spento e mi sono messa su X. Grazie.
@marsetac come si potrebbe fare per obbligare i veri, e finti, pacifisti a leggere un articolo, un trionfo di verità accuratamente spiegate come questo? 👏👏👏